Recensione Antigone. Una messa in scena essenzializzata in un’ecologia quasi metafisica, lo straordinario Tempio dei Diòscuri. L’Antigone femminista di Savatteri irrompe con asciutta verità, forse troppa.
Almeno nella versione sofoclea giunta ai nostri giorni, Antigone rappresenta uno dei miti fondativi dell’Occidente. Le interpretazioni della tragedia sono innumerevoli, ma quello che sconcerta di ogni sua possibile lettura è il posizionarsi dei protagonisti in una dialettica aperta e antitetica: Antigone rappresenta la scelta senza se e senza ma tra polarità ideologicamente alternative e irriducibili, ognuna delle quali ha le proprie ragioni e rispetto alle quali l’aristotelica via di mezzo non rappresenta in alcun modo una possibile soluzione.
Ancora oggi, rispetto al conflitto tra la piccola figlia di Edipo e lo zio Creonte, la scelta appare incredibilmente ardua e se, istintivamente, la disapprovazione va al despota tebano, parteggiare per la nipote non è una decisione scontata o indolore. Con il suo furore adolescenziale, la sua fragilità esistenziale e la sua determinazione femmina, l’antieroina esprime infatti il profumo della libertà e incarna il titano romantico che immola ogni cosa a un desiderio nobile e impossibile e ciò suscita spontanea simpatia e approvazione. Tuttavia, il sovrano che rifiuta testardamente di dare sepoltura a un traditore e considera ignobile il trattare allo stesso modo il giusto Eteocle e l’empio Polinice realizza la Ragion di Stato e un nobile senso di giustizia, seppur ben diverso da quello di Dike. La validità degli argomenti contrapposti è pari alla loro reciproca “disumanità” ed è proprio questa “legittimità” a restituire l’impressionante cifra di contemporaneità di questa tragedia.
Introdotta dalla lettura di Ester Rizzo di un testo su donne afghane e iraniane vittime di leggi di Stato e con il pensiero di Judith Butler a mo’ di nume tutelare, Marco Savatteri opta per una rilettura femminista e performativa con scelte registiche precise e di personalità, pur rimanendo timido nel provare a smontare e rimontare la struttura occidentale di genere. La musica è un sottofondo misterico da cui emergono le sonorità più pop di Sigur Rós (All alright), mentre le coreografie sono affidate al coro che, in fasi alterne, si fa carico di un’atmosfera prima luttuosa, poi mesta, infine ribelle. Sul pubblico cala l’atroce eco delle invettive che Antigone e Creonte si scagliano l’una contro l’altro: la prima crede in valori graditi agli dei e in riti non scritti di cui la società sta perdendo contezza ed è in loro nome che sta sfidando il diritto positivo e la legge dell’essere umano (pardon, dell’uomo). Il secondo mette in discussione la validità delle “urgenze morali divine” e si fa campione della necessità di un diritto laico oggettivo. Il risultato di questo conflitto è paradossale, in quanto la visione fideistica della società di Antigone sarebbe più progressista di quella secolare di Creonte, come se il bene dell’umanità fosse talmente sacro da non poter esser scalfito da convinzioni storicamente e ideologicamente determinate.
La visceralità del dissidio tra Antigone e Creonte viene trasfigurata in un allestimento che, pur partendo da Sofocle, non sembra ignorare le versioni di Anouilh e Brecht. La scena è infatti «una piramide di metallo» alla quale Creonte nel corso della sua delirante esistenza rimane abbarbicato finché gli oscuri e minacciosi presagi di Tiresia non lo abbattono. Le vesti sono militareggianti e l’ambientazione totalitaria, tanto che il coro cinge «catene indiscrete che si insinuano come serpenti», mentre i suoi lamenti segnano le responsabilità del popolo che prima si sottomette al dittatore e che poi anela una rivincita. Suggestivo l’inizio dalla straziante morte di Emone e interessante l’operazione di una doppia Antigone, con una sofferente e umbrale Chiara Peritore che replica (al)la rabbiosa e carnale Chiara Stassi. Un physique du rôle affascinante e martirizzato e un pathos vocale adeguatamente dosato tra smarrimento e desiderio fanno di Peritore e Stassi le protagoniste assolute della serata, mentre Andrea Carli (Creonte) e Lorenzo Massa (Emone) sembrano faticare su modalità forzatamente impostate e il Tiresia di Gerlando Chianetta incespica sul cliché del personaggio/fool cieco con occhiali scuri e bastone. Troppo comprimaria, invece, la drammaturgia riservata ad Anna Maria Di Nolfo (Euridice) e Giulia Marciante (Ismene), il che contrasta con la volontà di «immaginare su un piano parallelo le vicende reiterate all’infinito di Antigone, Ismene, Creonte ed Emone che si consumano sulla terra, mentre sotto, giù nell’Ade, Euridice nel suo doloroso silenzio cerca il figlio Emone, per riabbracciarlo; ed Emone cerca lei, la sua amata Antigone».
Savatteri fa all-in sulla contrapposizione di genere tra Antigone e Creonte («Siamo donne. Non possiamo combattere contro gli uomini») e la curvatura femminista e l’intenzione didattica dell’allestimento corroborano l’enorme arsenale messo a disposizione dalle tragedie greche per riconnettersi alle radici inconsce che, castrando desideri, divieti e perversioni, condizionano la nostra vita. L’emersione di una tematica di genere sarebbe dunque insita in una prospettiva di progressiva emancipazione delle relazioni genitoriali/filiali e la messa in scena intende proprio de-costruire e ri-costruire la struttura gerarchica occidentale, anche se incappa in una proposta talmente “coerente” nel suo sviluppo da cadere nella trappola della semplificazione. Dunque è un peccato che la scelta “femminista”, figlia di una evidente esigenza di chiarezza narrativa, sottostimi altri laceranti confronti, come quello tra le sorelle e tra padre e figlio. Difatti, in un’epoca secolarizzata come la nostra, con l’esperienza non scientifica (religiosa, ma anche estetica) marginalizzata a superstizione, se Antigone conquista i cuori e Creonte trionfa sul piano della razionalità, la situazione è ben più complessa di un aut aut. Invece, la critica di questa Antigone si affaccia sui nostri tempi bui, ma si limita a scorgere la valenza epocale di una crisi che sta travolgendo tanto condotte di genere, quanto valori e definizioni dei ruoli tradizionali. Dunque, Savatteri non coglie un assist che pure si era sapientemente lanciato da solo e modera l’approfondimento della questione di genere alla riflessione provocata dal clamoroso ribaltamento del common sense (che, al contrario della pièce, vuole i diritti delle donne difesi/sanciti dalla laicità e avversati dalla confessionalità).
In balìa di un mondo potenzialmente strabordante di opportunità, ma drammaticamente incapace di farsi percepire come accogliente, le coscienze sono specchio di un individualismo che ha ormai travalicato ogni confine morale. In un contesto planetario sempre più consumistico dove anche il gender sembra aver preso le rassicuranti vesta del brand alla moda, ogni scelta di campo può investire la coscienza con conseguenze emotivamente e materialmente determinanti nell’ottica della sua emancipazione. Il narcisismo – più che una “semplice” connotazione patologica – sembra annaspare in una deriva psichica ineludibile: di fronte all’omologazione dilagante promossa dai strumenti di comunicazione sociale e dalle strategie finalizzate alla crescita consumistica, cosa può opporre il singolo? Fare come Antigone e rifiutare la protezione “democratica” di una collettività organizzata su criteri e principi positivi e tornare alle tradizioni ctonie o, come propone Creonte, radere al suolo ogni residuo del passato e plasmare la società su binari eticamente costrittivi per gli eccessi delle individualità?
Nonostante l’evidente sbilanciamento a favore di una tesi sull’altra e la sua semplificazione didattica, all’Antigone di Savatteri va comunque riconosciuto di aver saputo porre i propri interrogativi in forme e contenuti contemporanei dimostrando come l’eredità classica abbia tutte le carte in regola per continuare a rinnovarsi e perpetuarsi anche in contesti spesso considerati “solamente” museali. La speranza è che la stagione del contemporaneo ad Agrigento non sia limitata nel tempo (estate, primo autunno) e nello spazio (la Valle dei Templi), ma che sappia estendere la propria durata e diffusione in quella che Pindaro nel VI secolo a.C. definiva «la più bella città dei mortali» e che oggi è solo una sua lontana parente.
Lo spettacolo è andato in scena all’interno della rassegna I Riflessi del Mito Teatro Valle dei Templi Tempio dei Diòscuri o di Castore e Polluce 3 ottobre, 2022
Antigone da Sofocle di Marco Savatteri Ombra di Antigone: Chiara Peritore Antigone: Chiara Stassi Creonte: Andrea Carli Emone: Lorenzo Massa Euridice: Anna Maria Di Nolfo Ismene: Giulia Marciante Tiresia: Gerlando Chianetta Guardia: Gioele Incandela Coro: Giuseppe Condello, Federica Lo Cascio, Giovanni Geraci, Martina di Caro, Albachiara Borrelli, Toti Maria Geraci, Chiara Scalici, Chiara Sardo, Samuele Sciacca, Martina Consiglio costumi Valentina Pollicino aiuto regia Francesco Buccheri produzione esecutiva Claudia D’Agostino scenografia La porta industries adattamento e regia Marco Savatteri
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