Quanto conta la Cultura per Meloni

2022-10-10 20:10:42 By : Ms. Fanny Liang

Al Ministero della Cultura si preannuncia quello che alcuni considerano come un cambiamento epocale, altri un normale avvicendamento politico al vertice dell’Amministrazione della cosa pubblica. Una volta che si convenga che il sostegno alla ricerca è la spina dorsale del futuro di ogni Nazione progredita; che la tutela del patrimonio storico è un dovere che abbiamo verso ciascuno di noi e le generazioni future; e che la sua valorizzazione è la strada maestra che ne permetterà la conservazione nel tempo, appare chiaro che i termini destra, centro e sinistra non descrivono fedelmente i temi sul tappeto e le soluzioni a disposizione. Questo non significa che il cambiamento non sia in qualche misura epocale. I tempi della politica sono purtroppo cortissimi, spesso malamente giocati sul presente, e gli 8 anni di Dario Franceschini (2014-18 e 2019-22, con una scialba parentesi) sembrano un’eternità, anche perché hanno lasciato il segno. La lunga stagione dei suoi due Ministeri ha lasciato un segno positivo nella sua prima fase, quella riformatrice, portata avanti con determinazione. L’autonomia dei musei ha recato frutti evidenti, forse al di là delle aspettative, e va difesa e anzi sviluppata. La riforma delle Soprintendenze le ha fornite degli occhiali per guardare finalmente al nostro patrimonio culturale con gli occhi del XXI secolo. E non è un caso se quelle riforme hanno incontrato forti opposizioni, specie all’interno dell’Amministrazione stessa, fisiologicamente timorosa del nuovo. Ma poiché ogni vera riforma va sempre accompagnata nel tempo, i suoi frutti hanno tardato di più a manifestarsi, anche perché nel suo secondo ciclo, esaurita «la spinta propulsiva», il Ministero è entrato in una fase di stagnazione, tanto che, abbandonate le riforme, è apparso il rischio di un’involuzione. E il peso dei problemi eterni torna a farsi sentire. L’emergenza infatti è sempre la stessa: la mancanza di personale a tutti i livelli, e in modo acutissimo nei quadri tecnici. I concorsi programmati rischiano di non colmare neppure i vuoti prodotti dai pensionamenti. Certo, il problema nella Pubblica Amministrazione è strutturale e andrebbe affrontato nel suo insieme, magari scaglionando nel tempo l’uscita dai ruoli, scalando l’impegno lavorativo di chi deve andare in pensione, favorendo così il trasferimento del know how da chi esce a chi entra. Se la carenza di personale frena la capacità di intervento e spunta le armi della nuova organizzazione, resta l’elefantiasi di un numero spropositato di direzioni generali poco dialoganti e di una organizzazione verticistica che consuma molte energie nei farraginosi rapporti fra centro e periferia. L’enfasi, comprensibile e in sé utile, sui grandi luoghi del patrimonio, attrattori di turismo e moltiplicatori di iniziative culturali, lascia in ombra il problema della gestione del patrimonio diffuso, sottoutilizzato e talvolta abbandonato. Se prendiamo atto della impossibilità di gestire con un’unica forma un patrimonio così diffuso, il Codice Urbani, quello dei contratti pubblici, quello del terzo settore indicano una pluralità di strade per nuove forme di gestione, capillarmente costruite in collaborazione con le comunità e i soggetti privati attivi in tutto il territorio nazionale. Se c’è un debito buono e uno cattivo, ci sarà anche un sovranismo cattivo e uno buono, che è quello che dà fiato al principio costituzionale di sussidiarietà. Tradotto significa che la gestione di pezzi di patrimonio da parte delle forze vive presenti nella società, affiancate e monitorate dallo Stato, è la strada per allargare enormemente il novero dei «conservatori» del patrimonio e ridurre la distanza tra Stato e cittadino. Analogamente occorre allargare la base dei soggetti che concorrono (facendo ricerca) alla conoscenza del patrimonio e quindi alla sua condivisione. La radicale riforma dell’art. 88 del Codice Urbani, che regola in modo autoritario le concessioni di scavo, non è una privata richiesta di un sodalizio di archeologi: è la presa d’atto che tutte le energie del Paese, tanto più se operanti nel pubblico come le Università, devono essere mobilitate, non frustrate, per un grande progetto di conoscenza, salvaguardia e valorizzazione. Per questo la cooperazione tra i Ministeri della Cultura e dell’Università dovrebbe diventare strutturale. La tanto auspicata piena liberalizzazione dell’uso commerciale delle immagini del patrimonio culturale pubblico, richiesta a viva voce in questi ultimi anni, è negata da un pessimo articolo dello stesso Codice Urbani (art. 108). Finora sono state vane le richieste di superare una visione mercantilistica del patrimonio (in perdita economica e costituzionalmente sospetta), che penalizza la creatività sociale e non aiuta il Ministero della Cultura a operare in sintonia con il Paese reale. Mano pubblica non significa agire in contrapposizione al cittadino, ma in sua rappresentanza, nel rispetto di norme condivise ma in necessaria continua evoluzione (nel Codice Urbani, nonostante abbia solo 18 anni, l’Europa semplicemente non esiste). Per quasi mezzo secolo il Ministero della Cultura, con le sue diverse denominazioni, ha avuto al vertice nomi di grande spicco, ma anche scialbe figure di cui non resta ricordo. Al momento non sappiamo se il titolare del Dicastero lo considererà, come tante volte detto da Franceschini, il Ministero economico più importante, o se lo declasserà a quella serie B in cui ha militato per tanti anni. Come sempre, la differenza la farà anche la qualità delle persone, quali che siano gli ideali di riferimento.

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