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Oggi ha 33 anni. Risale al 2014 l’agguato organizzato dal duo Levato-Boettcher. Fu uno scambio di persona: «Mi hanno operato 60 volte, sono quasi cieco. Io però vado avanti, ho capito che la mia identità è fatta di tante cose, non solo del volto»
Stefano Savi, 33 anni: fu assalito da Martina Levato e Alexander Boettcher nel 2014, lui aveva 25 anni
Il volto è il nostro principio di individuazione . Senza neanche bisogno di dirlo, pensiamo di essere la nostra faccia, con essa ci indentifichiamo. Nel 2014 Alexander Boettcher e Martina Levato - noti poi come la “coppia dell’acido” - idearono una sorta di macabro rito purificatorio: ritracciare e aggredire tutti gli ex fidanzati/amanti della giovane milanese, mirando proprio alla cancellazione del volto, come nel tentativo maniacale di ripristinare simbolicamente la verginità perduta. Insieme al complice Andrea Magnani, presero quindi a pedinare e colpire in giro per Milano alcuni ventenni. La prima vittima fu Stefano Savi, ma per errore: il bersaglio avrebbe dovuto essere Giuliano Carparelli, al quale Savi somigliava moltissimo. Le conseguenze per Savi - e Pietro Barbini, fidanzato di Martina Levato ai tempi del liceo Parini - sono state devastanti, come Savi stesso racconta ne L’odore dell’acido , da poco uscito per Piemme. La sua sembrerebbe una vita rovinata senza colpe né ragioni, ma lo sguardo di questo trentatreenne appassionato di tatuaggi e Harry Potter, nonostante il lunghissimo percorso medico, rivendica un’autonomia di giudizio su ciò che è stato e sarà. A partire dal rifiuto del rancore.
Stefano Savi, prima dell’agguato
Tutto inizia la notte tra l’1 e il 2 novembre del 2014. «Tornavo dalla discoteca, saranno state le cinque del mattino. Dopo il giro per riaccompagnare i miei amici, scendo dalla macchina e vedo un’ombra spuntare da dietro. È un attimo: mi sento arrivare in faccia una specie di olio che mi annebbia la vista. Tiro un calcio, a vuoto. Brancolando entro in giardino e inizio a strofinarmi gli occhi con l’erba del prato per cercare di pulirmi. Da lì, non so neanche come, ho preso le scale che portano direttamente alle camere».
Giuliano Carparelli, che era l’obiettivo della coppia
In casa c’erano i suoi? «Mio padre, mia madre e mio fratello gemello. Entrato in casa ho lanciato orologio, bracciali e anelli, pieni anche loro di acido, e sono corso in bagno a sciacquarmi. Ero già tutto nero».
Quando vi siete accorti che era acido solforico? «Quasi subito. Mio padre mi ha toccato la giacca e si è ustionato i polpastrelli. I vestiti erano sciolti: ai pantaloni era rimasta solo la vita e il fondo, della giacca di pelle c’erano solo le spalle, scendeva a gocce. Si è poi scoperto che l’acido era di una gradazione illegale in Italia: se l’erano procurato in Germania. Il bruciore c’era ma fino a un certo punto: sono entrato in una bolla, come se fossi sprofondato sott’acqua».
Nessuna immagine: suoni, parole? «Confusi. I miei che parlavano al telefono con il nostro medico, poi la decisione di correre al Fatebenefratelli. Lì hanno provato a pulirmi gli occhi con delle spatole. A quel punto sono crollato, mi sono messo a piangere. Ho perso la cognizione del tempo: non vedendoci più mi sembrava un’unica notte lunghissima».
Quindi è stato trasferito al Niguarda. «Centro Grandi Ustionati. A mio padre il medico ha detto: “Non sappiamo come va a finire, la situazione dire che è grave è riduttivo”. Mi hanno fatto fare un bagno igienizzante in una grande vasca di acciaio, poi hanno iniziato con antidolorifici, antinfiammatori, antibiotici, tutto in vena. Ho chiesto subito che mi portassero gli occhiali da sole: ero senza palpebre e la luce dell’ospedale era una tortura. Infatti sono iniziate le ulcere».
Anche la bocca è stata compromessa. «Si era completamente chiusa. Il primo periodo mi hanno dovuto imboccare. Per tre settimane ho assunto solo liquidi. E ho dovuto mettere il divaricatore, come quello del dentista, sulle cicatrici fresche. C’era solo una piccola fessura, il divaricatore tirava i tessuti cicatriziali per riaprirla. È stato il periodo più duro: ero spesso da solo e mi lavavano gli infermieri. Ho retto due settimane, poi ho detto basta. Troppo umiliante, ho chiesto di fare da solo».
Quando si è posto il problema di chi fosse l’aggressore? «All’inizio non ci ho pensato. Anche se la polizia ha iniziato a interrogarmi subito. I miei pensavano avessi qualche conto in sospeso: le serate, i locali, magari questione di donne. Io ero tranquillo: frequentavo sempre gli stessi posti e le stesse persone. Niente nemici. Poi, mentre sono uscito dall’ospedale, è venuta fuori la vicenda di Alexander Boettcher e Martina Levato, con cui non c’entravo niente».
Stefano Savi Come l’ha presa? «Da un certo punto di vista tiri un sospiro di sollievo: nessuno ce l’aveva con me. È iniziato l’iter processuale e ho voluto essere presente a tutte le udienze. Mi sembrava la cosa giusta da fare. Non tanto per vedere loro, non mi interessava, ma era giusto esserci».
Negli anni lei ha sempre rifiutato il registro del rancore. «Parlare delle cose che non si possono cambiare non mi piace. La persona ti fa del male, ok, ma io la vedo in un altro modo: non sto a guardare il singolo, guardo la vita. Io con loro due non c’entro niente. La vita mi ha messo davanti questa cosa qui? Affronterò questa cosa qui».
Boettcher e Levato sono stati ritenuti capaci di intendere e volere. «Perfettamente, il loro piano era tutto premeditato. Almeno questo mi è stato detto. Io non volevo sapere più di tanto. Andare alle udienze era importante ma mi innervosiva, perché era tempo sottratto alle cure: in quel periodo facevo un’operazione al mese e per andare in tribunale non potevo indossare la mia maschera». (continua a leggere dopo la foto e i link )
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Contenitiva? «Di silicone, per appiattire le cicatrici che all’inizio erano gonfie e spesse, e ridare piano piano al viso connotati simili a quelli di prima. Andava tenuta almeno otto ore al giorno: sono arrivato anche a diciotto-diciannove, per un anno e mezzo di fila. All’inizio non respiri, l’effetto è claustrofobico, ma ho insistito e sono arrivato a tenerla anche di notte. Con le terapie ho fatto tutto quello che potevo, per non avere rimpianti».
Il piano di “purificazione” di Boettcher e Levato era conseguenza di una visione gerarchica del rapporto tra maschile e femminile. «Lei sarà anche stata circuita, magari era innamorata, non so, però è importante ribadire alle donne di non farsi mai schiacciare da nessuno. Levato si è abbandonata alla marea. Sbagliatissimo. Questa visione maschilista è terrificante, sia nell’imporla che nell’accettarla».
Tutto per lei è cambiato a causa di uno scambio di persona. «Non sono stato a pensarci molto. I momenti di sconforto ci sono stati quando ho sentito di aver fatto soffrire la famiglia e gli amici. Se si parla con pazienti che stanno affrontando un percorso di cure dall’esito incerto è raro trovare pesantezza, vittimismo: sai che se vivi male quello che ti sta succedendo arrechi ancora più dolore a chi ti sta intorno».
Questo approccio le viene spontaneo o l’ha appreso? «È una cosa mia, sono sempre stato così. Infatti questo è il mio più grande traguardo».
Ovvero? «Da questo punto di vista sono rimasto esattamente quello di prima».
Cosa la fa arrabbiare nella vita? «I ritardi. Se devo aspettare qualcuno non ce la faccio. Dall’incidente non ho più pazienza. Ho aspettato troppo, ore e ore per ogni visita, e mesi tra un’operazione e l’altra».
Come riempiva i momenti di vuoto? «Film. Harry Potter in particolare. E mi piacciono quelli sulla Shoah e l’11 settembre».
Ottimista ma interessato alle narrazioni tragiche? «Al male che l’uomo può fare. Dicono che sono un modello ma ho solo fatto quello che dovevo: la vera sfida, per tutti, è non fare più male agli ».
In otto anni a quante operazioni si è sottoposto? «Circa 60, senza contare trattamenti, filling, manipolazioni. La prima, la più impegnativa, è stata la rimozione della pelle bruciata, per innestare quella artificiale. Una volta guarita, me ne hanno prelevato uno strato dalle cosce e me l’hanno applicato su faccia, mano e gamba».
Cure all’estero? «In Francia. A Saint Gervais, subito dopo il traforo del Monte Bianco. Cure allo zolfo in un grande centro termale specializzato. Docce, bagni e manipolazioni per la rigenerazione cellulare. Ci davano anche l’acqua allo zolfo da bere. Soporifera, dormivamo tutti ovunque».
Il momento fisicamente più doloroso? «L’operazione all’orecchio, il primo anno. Mi hanno dovuto rifare il buco, tagliando la carne che si era chiusa. Il male più grande della mia vita. Ho avuto un’emorragia e mi hanno messo i punti da sveglio. Tutte le mattine andavo a farlo cauterizzare per evitare che si formassero i grumi di sangue. Ma anche le ulcere agli occhi: me n’è tornata una l’anno scorso sulla cornea, quasi perforante. Per un mese è stato come avere un trapano in testa».
Per questo gli occhiali da sole fissi. «Se mi entra qualcosa è la fine: basta una ciglia e ricomincia tutto».
La vista è tornata? «Dall’occhio sinistro non ci vedo più. Ho fatto un trapianto di staminali che purtroppo non è andato a buon fine. Quando mi chiedono se sono arrabbiato rispondo sempre che per un mese e mezzo sono stato cieco da entrambi. Poi basta fare un giro in ospedale, ti imbatti in cose che spezzano il cuore. In Francia c’era una ragazzina di 19 anni, bruciata in macchina, completamente nera. Mano amputata, gamba amputata».
Cosa l’ha aiutata di più in questi anni? «Gli amici. Ho pensato a loro, e non al rancore. Le guerre non portano a niente, anche se le vinci lasci comunque indietro pezzi di te. Si esce comunque distrutti. Bisogna puntare sul bene».
Altre operazioni in programma? «Potrei intervenire ancora sul naso, mi manca un pezzo di narice. E potrei ricostruire il lobo dell’orecchio. Ma sarebbero tutte operazioni complicate, dall’esito incerto. I miei tessuti sono compromessi. Il circolo della chirurgia può diventare una dipendenza: a un certo punto ti devi accettare per quello che sei».
A venticinque anni però l’immagine conta tanto. «Mi dava fastidio che quando uscivo mi guardassero tutti. I medici in ospedale però mi dicevano: “Ora è così, ma più ti impegni e più migliori”. E, una volta fuori, non mi hanno dimenticato. Mi hanno guidato verso gli altri specialisti: il tricologo, per i capelli e la barba che avevo perso, lo specialista per il laser. Nessuno crede a questo risultato: la mia fisioterapista dice che sono da mettere nei libri».
La prima uscita che si ricorda? «Dopo sei mesi sono tornato all’Old Fashion per salutare i proprietari. Non mi hanno riconosciuto. Ma certe cose vanno fatte il prima possibile, anche perché la paura cresce nella distanza: l’ansia preventiva è più forte di quel che si prova nell’immergersi nel momento concreto».
C’è qualcosa che l’ha sorpresa in quei momenti? «Cambiare da un giorno all’altro, essere irriconoscibile, è stato duro. Andavamo al ristorante e chiedevo ai miei amici: “Ma secondo te ha capito chi sono?”. Tanti mi riconoscevano dalla voce. È stata una rivelazione. Ho scoperto quante cose concorrano a definire chi siamo: la nostra fisionomia è importante, ma ho notato che tanti mi riconoscevano anche se ero di spalle, dai ragionamenti che facevo. Ho capito che, nonostante tutto, continuavo a essere io».
L’aspetto poi chiama in causa il desiderio. «Per i primi tempi con le ragazze non riuscivo a interagire. Subito prima dell’incidente mi stavo vedendo con un’amica di origini russe: uscito dall’ospedale ho provato a rivederla ma non ero a mio agio. C’è voluto tanto. Le occasioni ci sono state, ma tutte declinate. Ora sono fidanzato, da quattro anni».
Che forma hanno oggi sogni e progetti? «Anni fa potevo fare un piano di vita, immaginando viaggi, spostamenti: adesso è dura. Ho la mia indipendenza, ma il raggio d’azione è circoscritto. Ad esempio: potrei guidare ma non sono più abituato. Ho paura di far male a qualcuno. Oggi è tutto più complicato, anche parlando di lavoro. I sogni quindi riguardano la salute. Spero di mantenere la vista dall’occhio sinistro: riprendere a vedere dal destro sarebbe bello, ma l’importante è che me ne resti uno. Di base vivo così».
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